“A piedi nella Valtellina e Valchiavenna di fine ‘800”
L'alpinismo, lo dice il nome, è nato e cresciuto sulle Alpi; qui si sono sperimentati per due secoli i materiali, le visioni e le tecniche della scalata. Sono state le Alpi il laboratorio mondiale della vertigine, il posto in cui crescevano i maestri e maturavano le idee poi esportate in Himalaya e sulle grandi montagne del pianeta. La Val Masino è nella hit parade delle grandi pareti verticali, diventate un crocevia internazionale di scuole e stili a confronto, generando una successione straordinaria di tentativi, di sconfitte e di conquiste. Il secondo itinerario dei sette che ho percorso – sottolinea Erik Viani della libreria VEL di Sondrio - con l’ausilio di una guida di fine ‘800, edita dal CAI sezione valtellinese, tratteggiata con sapiente cura da Fabio Besta, parte da Morbegno e si chiude nella splendida cornice dei Bagni di Masino. Morbegno è sempre stata luogo di transito di antiche vie, essendo situata all'imbocco della Val Gerola e poco distante dal Lago di Como, da Sondrio e da altre vallate trasversali dalle quali confluivano mercanzie di ogni tipo. La sua posizione l'ha resa perno economico della media e bassa Valtellina. La guida alla “Valtellina ed alle sue acque minerali” pubblicata nel 1884 evidenzia l'operosità delle sue genti ed i floridi mercati: “Morbegno, Antica borgata, fu per brevissimo tempo, nel 1798, sotto la Repubblica Cisalpina, capoluogo del dipartimento dell'Adda. Varie chiese antiche, tre vasti fabbricati di conventi, il palazzo Malacrida e diversi altri fanno fede alla sa passata floridezza. […] Non è notabile soltanto per vecchie memorie. Ha vari opifici, e l'industria, specialmente quella della seta, vi è in fiore. Ha mercati settimanali attivi e frequentati; ha numerosi e decentissimi negozi. Le vie sono ben tenute, e fra le sue case ve ne sono parecchie non umili e abbellite da vasti giardini.”
Spostandomi da Morbegno, scelgo di ripercorrere gli antichi sentieri che, attraverso la Costiera dei Cech, portano alla Valle dei Bagni di Masino seguendo passo per passo le indicazioni della guida: “Passata l'Adda al ponte di Ganda (266 m.), una strada carrettabile porta a Civo, donde per Roncaglia si sale a Caspano, villaggio dove si vedono tuttora, sebbene ridotte ad abitazioni agricole, le già ricche dimore di parecchie nobili famiglie valtellinesi, che anticamente menavano su quell'alta e salubre pendice vita lieta e spensierata”, e prosegue: “Volendo da Caspano portarsi ai Bagni del Masino per sentiero alpestre si sale all'alpe Fontanini sotto il monte Spluga, indi all'altra di Corte del Dosso, poi, traversando il torrente Spluga, alla bocchetta di Merdarola (2492 m.) donde in meno di due ore si scende allo Stabilimento. La gita da Morbegno ai Bagni del Masino (1172 m.) per questa via richiede da 10 a 11 ore di cammino.”
Ho voluto capire, cercato di dare un peso ed un significato al termine gita coniato da Fabio Besta a chiusura dell'itinerario. “Cosa intendeva dire esattamente utilizzando questo vocabolo?” Impossibile associarlo al concetto di oggi; la distanza che divide il punto di partenza all'arrivo sfiora i 25 chilometri, con un dislivello positivo di 2300 mt. Non si tratta di una comune gita, ma la cosa mi incuriosiva a tal punto da ricostruire su carta prima per poi affrontare il sentiero dal primo all'ultimo punto descritto. Ho dedicato ore, giorni e settimane, per conoscere, tracciare, provare e riprovare un percorso che fosse il più conforme a quello nel manuale. Salendo dal Ponte di Ganda subito mi colpiscono alcune borgate abbandonate lungo la Costiera dei Cech che entrano prepotentemente nella storia di quel periodo; qui diverse generazioni sono riuscite ad addomesticare queste terre di montagna, difficili eppure bellissime, facendone un luogo di vita e di lavoro. Oggi, il degrado causato dal tempo e dalla incuria umana ha trasformato questi piccoli villaggi in edifici rurali ormai diruti; lungo il percorso si trovano edicole votive rovinate, enormi massi utilizzati per la costruzione di vecchi depositi inglobati dal sotto bosco e bellissime cascate nascoste dai rovi.
Arrivo a Naguarido, poi a Ca' Busnarda e successivamente a Santa'Anna, in un clima bucolico di tradizione di borgata con case di pietra, ballatoi in legno e bellissime piante rampicanti che colorano le facciate. Giunto a Cadelpicco, proseguo per pochi metri lungo la strada provinciale per poi deviare a sinistra verso i boschi seguendo l'insegna che porta alla malga di Rigorso. Intorno ai 950 mt di quota imbocco un altro sentiero che attraversa i canaloni di Maronera e Piccinera sino alle baite del maggengo di Ceresòlo nella Valle di Spluga. Quest'ultimo tratto è stato risistemato recentemente e messo in sicurezza con alcune catene nei punti più esposti, ma non pericolosi. La guida accenna ad un traverso più in quota, ma i sentieri, a causa dell'erosione del territorio, si sono resi impraticabili (esiste una traccia sopra i 1750 mt di quota che giunge in Valle di Spluga e va ad intersecare la Corte di Cevo, ma altamente sconsigliata per la difficoltà e l'esposizione al vuoto). Il panorama alle mie spalle si apre a compasso ed osservo ruotare da ovest ad est la catena orobica dalla Val Gerola alla Val Tartano con il Culmine di Campo Tartano in primo piano. Il primo tratto di salita in Valle di Spluga è monotono, e il panorama precluso dalla macchia boschiva. Un piccolo sfoltimento del lato arboreo di sinistra donerebbe alla vista bellissimi giochi d'acqua tra cascate e piccole pozze fresche e cristalline formate dal torrente Cavrocco (Spluga come citato da Besta). Raggiunta quota 1850 mt seguo a destra alcuni ometti che avevo posto come riferimento pochi giorni prima in corrispondenza di un vecchio rudere e percorro una traccia di sentiero pestato. Appena esco dai boschi devio a sinistra dove, perpendicolarmente al punto di partenza, mi dirigo alla bocchetta di Merdarola (Passo Cavislone) orientandomi praticamente a vista. Gli ultimi 400 metri vedono la pendenza aumentare progressivamente, la salita si fa sempre più erta e scoscesa e la fatica cresce di passo in passo. E' una zona impervia, poco conosciuta, attraversata (siamo oltre i 2500 mt) in estate da chi proveniva da Morbegno e voleva raggiungere i Bagni di Masino (o viceversa) nel “minor tempo possibile”.
Non riesco ad immaginare due secoli fa le difficoltà e la forza di volontà nell'affrontare tutta la traversata. Basti pensare che la discesa dal piccolo valico è un'avventura attraverso un ripido canalone di pietraie che immette nella Valle della Merdarola, la quale si presenta come un dedalo di canali formato dallo scioglimento del manto nevoso con salti e cascate a strapiombo nella sottostante Valle dei Bagni. L'orografia di questo territorio è completamente modellata dall'acqua. I guadi tra sassi, rocce lisce e felci giganti rendono il sentiero difficoltoso, oltre che scivoloso per lunghi tratti. Le mucche che “soggiornano” nei pressi dell'unica baita (2050 mt) contribuiscono a rendere il tracciato ancor più ostico con il loro calpestio. La Valle della Merdarola è una zona completamente selvaggia, esposta a nord, spesso in ombra, con precipizi e vegetazione rupestre in quota ed un groviglio di ontani e cespugli di rododendri a metà versante. E' difficile trovare bellezza in questo tratto, ma anch'esso ha il suo fascino. Giunto nel fondo valle si percorre un bosco di conifere dominato da colossali pietre granitiche lisce e tondeggianti che spiccano come sentinelle tra la fitta vegetazione. Arrivato allo stabilimento sono sovrastato dalle vette aguzze dei monti che si stagliano nel cielo, che la guida stessa esalta, decantando le sue amenità: “Le bellezze di questa severa e maestosa regione alpestre furono descritte con anima d'artista e di poeta dal Freshfield in due capitoli del suo Italian Alps […]; ma quei che con maggior lena e maggior amore le studiò si fu Francesco Lurani socio del Club Alpino italiano. A lui dobbiamo un'accurata monografia (Le montagne di val del Masino. Milano 1883). […] La cima di Zocca, vergine tuttora, per quanto ci consta, e la cui salita dalla valle omonima il Lurani giudica impresa ardua ma possibile”. Questa esperienza mi avvicina ancor più al fascino della montagna e della vita in montagna. Mi riporta, anche solo per un giorno, all'avventura di una traversata in luoghi dimenticati dal tempo, a cavallo tra presente e passato.
Dalla metà alla fine dell'Ottocento, le cime della Val Masino cominciarono a destare l’attenzione dei primi alpinisti. Fabio Besta scriveva a tal riguardo: “La Cima di Castello, pare sia stata ascesa una sola volta, il 31 luglio 1866, da Freshfield per il ghiacciaio del forno. Il Badile e il Cengalo, sono due magiche vette, [...] domate dal Freshfield e dal Tucher il 25 luglio 1866 la seconda e dal Coolidge nel 1867 la prima. Il Freshfield dai Bagni alla cima del Cengalo impiegò quattro ore e mezza, il Lurani nel 1879 partendo dalle baite del Porcellizzo giunse al Cengalo in cinque ore, al Badile, nel 1880, in quattro.” L'alpinismo possiede le sue montagne, i suoi eroi, ma anche i suoi sacrifici. La Valle del Masino con le sue pareti di granito verticali ha assistito a diverse sciagure ma altrettante imprese.
Mario Vannuccini, conosciuta e apprezzata guida alpina locale e assiduo frequentatore di questa zona racconta come la Val Masino ha rappresentato e tutt'ora rappresenta uno dei punti di riferimento della scena mondiale dell'alpinismo verticale: “Al tempo dell’uscita della guida del Besta il Masino non è ancora una meta frequentata assiduamente dagli alpinisti, soprattutto italiani. Vi ci hanno già arrampicato gli inglesi pochissimi decenni prima, muovendosi in uno stile “sportivo” nel senso originale del termine - che forse ancora non appartiene all’alpinismo italico – che gli ha permesso di conquistare le vette più importanti e appariscenti della regione: il Monte Disgrazia nel 1862 e, a seguire, il Cengalo, il Badile, la Cima di Castello. La loro è una disposizione goliardica e scanzonata ma allo stesso tempo determinata nell’affrontare e sopportare lunghi avvicinamenti, il disagio di bivacchi di fortuna e l’incertezza del muoversi su terreni perlopiù inesplorati alla caccia di vette mai scalate in precedenza. Quelle del Masino, infatti, sono cime granitiche bellissime e attraenti ma nello stesso tempo lontane dal fondovalle, tecnicamente piuttosto difficili e perlopiù adatte esclusivamente agli specialisti dell’epoca, prevalentemente inglesi e tedeschi. E a leggere le testimonianze proprio di quegli inglesi che durante la loro grande messe alpinistica fecero dei Bagni di Masino la loro base di partenza, i turisti italiani che all’epoca affollavano la struttura, prevalentemente milanesi, non erano certo dei montagnard… Erano occupati, piuttosto, a trovare ogni modo per non aver niente da fare o forse, direi io pensando a Maupassant, a correr dietro a qualche svolazzante sottana. La fausta coincidenza che permise un passo avanti nella frequentazione del Masino furono le campagne dell’esploratore, cartografo e alpinista Francesco Lurani Cernuschi che, con la sua fidata guida bergamasca Antonio Baroni, in pochi anni ripercorrerà le vie degli inglesi, ne aprirà di nuove e si dedicherà a una sistematica e attenta perlustrazione della regione dalla quale scaturirà, nel 1882, l’edizione della prima monografia dedicata a questo gruppo montuoso. Un altro merito del Lurani è l’intuizione di dover costruire dei rifugi al fine di mitigare i grandi dislivelli dal fondovalle e “avvicinare” così pareti e ghiacciai. Sarà lui stesso il finanziatore di una prima capanna a ridosso del ghiacciaio di Preda Rossa sulla via per il Monte Disgrazia, alla quale faranno seguito, per iniziativa del CAI Milano, la capanna Badile nel 1887, una prima Capanna Allievi nel 1905 e la capanna Ferrario in Val Torrone nel 1928, in seguito distrutta da una valanga e mai più ricostruita. L’idea di collegare questi rifugi porterà all’invenzione del Sentiero Roma, inaugurato nel 1928, che vedrà crescere sempre più la propria notorietà tra gli escursionisti fino ai giorni nostri, grazie anche al famoso Trofeo Kima, la grande corsa sul Sentiero Roma. Ma facciamo un piccolo passo indietro. L’evento, il raduno alpinistico ante litteram che portò la Val Masino sotto le luci della ribalta fu senza dubbio la “gita sociale” al Passo di Zocca con discesa in Val Bregaglia lungo il ghiacciaio dell’Albigna. Era l’estate del 1911. Questa salita alpinistica, organizzata dal CAI Milano e patrocinata dal Corriere della Sera, contò ben seicentoventi partecipanti - un numero impressionante non solo per allora - che a San Martino vennero accolti dalla fanfara, salutati dalle autorità e supportati da settanta alpini e da venti medici. Che dire… numeri paragonabili, ai giorni nostri, a un altro raduno nato e cresciuto in Val Masino nel corso degli anni, ovvero il Melloblocco, il più grande meeting dedicato ai rocciatori mai organizzato al mondo…”
L'uomo ha sempre cercato nella montagna un motivo di sfida ed uno stimolo per poterla conquistare. Dopo le prime ascese sulle Alpi si sono cercate pareti e confini sempre più difficili ed invalicabili. Man mano che aumentavano le difficoltà si sono cercati nella tecnologia e nell'equipaggiamento un aiuto sempre maggiore.
Nel saggio “In su e in sé” di Giuseppe Saglio leggo che: “L'uso dei mezzi artificiali per ogni salita porta a una totale estraneazione e a una completa deprivazione per l'esperienza” (1). L'uso di mezzi artificiali in modo “eccessivo” trova il suo apice all'inizio degli anni '70. Reinhard Karl consapevole di questa evoluzione scelse una strada più “ecologica”, non è più l'uomo che modifica e altera gli equilibri naturali ma vi si adatta; scriveva: “Nell'alpinismo si sente dire spesso che la tecnica uccide la natura, che la tecnica uccide l'esperienza. Qui non si può scappare dalla tecnica, ma si po' vivere la natura nonostante i chiodi” [2]. Qui emerge la capacità di lottare per una cima accanto alla netta consapevolezza delle forze in campo e un'acuta riflessione sul senso della sconfitta dell'alpinista come pensatore verticale. L’alpinismo odierno si avvale dell’utilizzo di attrezzature e di sofisticati materiali che hanno lo scopo di agevolare le salite e di garantire la sicurezza di chi lo pratica ridando quel sapore di sfida e di confronto tipico dell'epoca di metà-fine Ottocento. “E' un grande vantaggio”, scriveva Hermann Buhl sulla rivista mensile C.A.I. uscita nel 1952, documentando la sua prima in solitaria sulla parete NE del Badile: “quello dello scalatore moderno, di poter salire leggero e quasi danzando, come un gatto, fidandosi ciecamente dell'attrito delle suole di gomma! Bisognerebbe innalzare un inno di lode a questa preziosa invenzione. Così con spaccate, spinte e volteggi m'innalzo metro per metro”, continua Buhl nell'articolo: “mentre un capo della corda mi segue sempre come un fido compagno. Certo non vi è nulla di più bello, che arrampicare così libero da qualsiasi mezzo artificiale, con il piede leggero e gli occhi vigili, come un tempo un Preuss o un Dülfer, confidando solo in sé stesso e nella propria abilità d'usare le punte delle dita e dei piedi. Qui entrano in gioco soltanto lo stile naturale e la singola capacità tecnica”. [3] Partendo dal presupposto che alpinismo e scienza sono indissolubili, Vannuccini, potresti dare un tuo parere a riguardo dell'uso di mezzi artificiali nell'arrampicata, riconducendoti alla frase di Karl Reinhard ed al pensiero di Herman Buhl. Nell'alpinismo c'è e ci sarà sempre una soglia di pericolo, dettato da diversi fattori. Come camminare su una cresta, sospesi nel vuoto, essenziale è stare in equilibrio con mente e corpo, come accenna Giuseppe Saglio: “Le montagne sono cunei che penetrano il cielo: sono immerse e circondate dal vuoto. Arrampicare su una parete verticale restituisce pienamente questa percezione: da una parte si resta aggrappati saldamente alla materia, dall'altra si avverte l'attrazione del voto. Un abisso che non è necessariamente precipitare, ma uno spazio infinitamente aperto verso il basso. Nello stesso tempo il mito della caduta resta inevitabile e insuperabile. […] Una costituente, questa, essenziale per i significati dell'alpinismo, acquisibile solo attraverso una piena percezione con la materia e con l'ambiente naturali” (1).
Bibliografia
1. Giuseppe Saglio, Cinzia Zola, In su e in sé, Priuli & Verlucca, 2020
2. Reinhard Karl, Montagna vissuta: tempo per respirare, 1982 Dall'Oglio
3. Bruno Credaro, Ascensioni celebri sulle retiche e sulle orobie, 1964 BPS
Silvio M.
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